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Troviamo noi stessi in quello che indossiamo

“Mi sembra evidente” – ci spiega l’etnologo Michel Leiris – “che chi ci taglia gli abiti, in sintonia con l’idea che abbiamo di noi stessi come alla sua idea della nostra persona e degli imperativi della moda, si trova orientato direttamente sulla filosofia. Il suo campo d’azione non è per essenza situato al confine tra l’essere e l’apparire?”

A questa sorta di invito alla riflessione, verrebbe da rispondere con la filosofia del vestire quotidiano che possa intrinsecamente proporre “l’essere nell’apparire”, come sintesi che superi il confine delineato da Leiris. Indispensabile, per far ciò, è l’individuazione, da un lato, dell’identità di noi stessi e, dall’altro, ciò che pensiamo di noi stessi (e, ancor di più, come ci vogliamo proporre agli altri). Solo da questi passaggi, dunque, si può e si deve raggiungere l’obiettivo di trasmettere al mondo ciò che siamo attraverso ciò che indossiamo. Ma quale l’indumento adatto? Quale l’essenza di un guardaroba capace di dare un senso filosofico a ciò che siamo? C’è chi opterebbe per l’abito classico, chi per l’accessorio spesso inutile, ma capace di fare la differenza, chi per i piccoli dettagli e chi pure nel dissacrare, attraverso l’errore, la bruttura, la rottura qualsiasi parvenza di regola del vestire “come si deve”. Dalla testa ai piedi, dal cappello alle calzature, un guardaroba è fatto di regole (ed eccezioni alle stesse), di conferme e classicismi (contrastati dall’ambita innovazione), di estro (equilibrato dal rispetto). Del tutto e del contrario del tutto, insomma. Per orientarci, quindi, nel disordine del vestire quotidiano, serve porsi un’ulteriore domanda a cui ognuno di noi potrà rispondere per sé: “dove risiede la parte più intima e nascosta di noi? Sotto il vestito, al di là del vestito o proprio nel vestito?”

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